00 06/01/2007 16:54





Otello

il Nivuru di Mazzaria

TRAGICA COMMEDIA di Francesco Randazzo



rivisitazione dell'Officina Teatro "gli Ostinati", attualizzata, dei personaggi di una delle novelle orrorosa degli "Hecatommithi" di Gian Battista Giraldi Cinthio (edita a Monreale nel 1565) cui si ispirò Shakespeare per il suo "Otello" .
Opera Vincitrice del Premio Ugo Betti per la drammaturgia 2005

La vicenda è trasposta ai giorni nostri fra Mazara del Vallo e Lampedusa, nel crocevia d’immigrazione dall’Africa alla Sicilia.
Una commedia nera e ambigua, uno splatter di cupa e dissacratoria ironia, un divertimento da brivido...

La nera vicenda di Otello trasposta ai nostri giorni, nel marasma di sbarchi clandestini, promiscuità e giochi d’interesse, brutalità e gelosie, bugie e confusioni fisiche e mentali, la storia diviene una grottesca, sanguinaria pittura di una società eccessiva che corre verso la distruzione attraverso la menzogna e l’ignoranza.

Un mondo basso e volgare, un’umanità cruda e dura, ignorante e meschina, tutta dedita solo al proprio interesse e piacere. Un mondo privo di morale, di coscienza civile. Somiglia al nostro, perché è il nostro. Noi, come commedianti dell’Arte, ve li mostriamo senza pudori i personaggi che agitano la vicenda di Otello, il Nìvuru di Mazzaria del Valium. Tutto è esplicito, beffardo, tutto è esasperato, sboccato e sfrontato. Divertente, ma con l’acido che raspa in gola. Divertitevi, gente, diciamo, ma state ridendo delle vostre sporcizie e ipocrisie, state ridendo del sangue e del dolore che nascono dai vostri pregiudizi mascherati in pubblico, che qui noi vi mostriamo impudicamente.

Tutto è pretestuoso, il Teatro stesso e il suo uso lo è, oggi, tutto è osceno per disperazione, la disperazione della stupidità al potere.


“Non c’è morali, è inutili a circarla”: che sollievo! Questa riscrittura della novella del Cinzio e, di lì, dell’Othello shakespeariano, non propinando significati su cui è necessario riflettere, promette di non turbare il divertimento dello spettatore. Promette, invece della Tragedia, un rassicurante reportage: “Solamenti vi c’appresentamo li fatti como ci accapitarono”, suggerisce la Vox che, leggera e disincarnata quasi come un’annunciatrice fuori campo, riassume la trama dell’opera. Niente paura, dunque, la distanza di sicurezza da un messaggio eccessivamente serio sembra garantita, a partire dalla metamorfosi della solennità del prologo nella vivacità di una voce dialettale.
Se il procedimento di riduzione ironica è così palese, probabilmente le vicende delle quattro dramatis personae – Otello, Iaco, Disdemona, Iemilia – costituiranno un intrattenimento piacevole, persino spensierato. Non a caso, al posto del nobile guerriero straniero a cui la tradizione ci ha abituati, come eroe eponimo abbiamo tutto tranne che un eroe: un immigrato, di professione pescivendolo, che per integrarsi “intella società civili e sdemocratica ‘taliana” si mette al servizio di autorità locali legate alla mafia. I potenti siciliani sfruttano il “Nìvuru” così come la Repubblica di Venezia si serviva del Moro shakespeariano, anche se ne fanno un vero e proprio scagnozzo piuttosto che un condottiero valoroso. L’Otello del terzo millennio, infatti, non approda a Cipro, bensì a Lampedusa, dove farà “lo guardiano/ abbuttandoci al mare/ quei puvirazzi nìvuri como a me” che tentano di raggiungere le coste italiane. La trasposizione è esilarante: dal Moro che conquista con la magia della parola poetica il cuore di una dama veneziana, si è passati, nel corso dei secoli, al Nìvuru che seduce la figlia di un mafioso grazie a dei versi da filastrocca e alla prestanza fisica. A sua volta, il perfido alfiero della novella del Cinzio si trasforma nel “turpe Iaco sodomita” - come dire, sostituita la “g” del nome che aveva in Shakespeare con una “c”, il personaggio perde ogni raffinatezza nell’arte del male. Invece di controllare e manovrare le azioni altrui con il lucido distacco di un abile regista, Iaco troppo spesso è costretto ad agire in prima persona. I suoi stratagemmi, non più sostenuti da un’impeccabile padronanza dello strumento verbale, si riducono ai rozzi espedienti di un piccolo criminale e ai luccicanti travestimenti di una strampalata drag queen. La sua perfida razionalità è irrimediabilmente annebbiata dal perturbante passionale, una lussuria tanto manifesta e incontenibile da risultare a tratti ridicola. Anche per quanto riguarda la coppia Otello-Disdemina, la riscrittura di Randazzo fa esplodere il sottotesto sessuale presente nella novella del Cinzio e, molto più esplicitamente, nel dramma di Shakespeare. L’autore si è appropriato, con successo, di una delle strategie più efficaci dello Iago shakespeariano: spalancare visioni oscene (anche in senso etimologico) che coinvolgono il pubblico in un atto voyeuristico. Ma c’è una differenza. La messa in scena dell’appetito sessuale, qui più concreta che metaforica, scatena non tanto inquietudine, quanto ilarità, dando a chi guarda l’illusione di compiere, di risata in risata, un percorso relativamente indolore.
Eppure, volenti o nolenti alla fine ci si trova a ridere di un riso amaro. La giustizia che “alla fini, ma proprio alla fini, forsi doppo della fini, attrionfa” non è in grado di allontanare l’ombra della morte. Per quanto il comico e il grottesco si mescolino alla tragedia, o forse proprio per questo, non riescono ad evitare che nella mente dello spettatore prenda gradualmente forma un inquietante sospetto: che dietro la farsa dell’Italia “sdemocratica” del “confritto d’interesse”, della “‘mmunità politica” e delle canzonette, si nasconda in realtà un significato tutt’altro che divertente? Che la puzza a cui Disdemona cerca di sottrarsi coprendosi il naso con il letterario fazzoletto, qui un “pannicello”, non provenga soltanto dai pesci (o dal pesce) del marito?
Forse, quei pesci sono ben altra cosa. Forse, in quel paese c’è del marcio ancor più pestilenziale. Qualcuno, calato il sipario, penserà ai “signuri” che sfruttano i “nìvuri”, e magari si ricorderà che al nano dall’accento milanese – personaggio ignoto agli elisabettiani - interessano ben poco le sorti delle casalinghe meridionali. Qualcuno, tornando a casa, potrebbe domandarsi quanto sia stata sincera, o ingenua, la voce dell’incipit: forse una morale c’è, e vale la pena di cercarla.
Di certo, c’è poesia in questo Otello contemporaneo, e vale la pena di ascoltarla:


Un nìvuru resta sempre nìvuru./
È una cosa più interna del colore scuro/
È una cosa scura che ci sta di dentro/
Pirchè c'è un punto dentro di esso/ Un punto che coincide/
Con tutto quello che di lui è vitale ...]/
E il Nìvuru è sempre Nìvuru/
Nel punto segreto/
Che coincide con se stesso/
Solo quando muore/
Il punto si dissolve/
Soltanto allora il Nìvuru sembra soltanto uomo/
Pirché quando è vivo/
Il Nìvuru è di meno o di più di un uomo/
Mai semplicemente un uomo.


(passeggiando nel Web)