Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

Il Gazebo

LO SCARAFAGGIO, IL TOPO E IL GRILLO di G.B.BASILE

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  • zzuccarata
    00 11/09/2005 08:16


    C'era una volta sul Vomero un massaro ricchissimo, chiamato Miccone, che aveva un figlio chiamato Nardiello, che era il più sciagurato pecorone che si trovasse mai nella barcaccia dei falcacci: tanto che il povero padre se ne stava amareggiato e sventurato, perché non sapeva né in che modo né in che maniera guidarlo a far cose di qualità e di qualche utilità.
    Se ne andava alla taverna ad ingozzarsi con i compagni i malandrini lo imbrogliavano, se praticava con malefemmine prendeva la carne peggiore e la pagava più del dovuto, se giocava nelle bische lo lavoravano come una pizza, lo mettevano in mezzo e lo prendevano caldo caldo, in modo che, in un modo e nell'altro, aveva consumato metà della roba del padre.
    Per questo Miccone stava sempre in allarme, gridando minacciando e dicendo: «Che credi di fare, spendaccione?
    Non vedi che la roba mia ormai se ne scende giù come l'acqua? lascia perdere, lascia queste maledette osterie, che cominciano con la perola oste, che vuol dire nemico, e finiscono con la parola rie, che vuol dire cattivo!
    Lasciale, lascia questo gioco scomunicato, che mette a rischio la vita e rosicchia la roba, che spinge via le contentezze e consuma i contanti, dove i dadi ti riducono a zero e le parole ti assottigliano come uno zipolo! Smettila, smettila di sbordellare con questa mala genia di figlie del peggiore dei peccati, dove spandi e spendi! Per una cernia consumi i soldi e spasimi per una carne sfatta, riducendoti a rosicchiare un osso perché non sono meretrici ma un mare trace, dove sei catturato dai Turchi!
    Tienti lontano dalle occasioni così ti allontani dal vizio: allontanata la causa, disse quello, si rimuove l'effetto.
    Eccoti perciò questi cento ducati: vai alla fiera di Salerno e comprane tanti giovenchi, così in tre o quattro anni ne faremo tanti buoi; fatti i buoi, ci metteremo a lavorare il campo; lavorato il campo, cominceremo a far commercio di grano e se ci capita una buona carestia misureremo gli scudi a quintali e se non altro ti comprerò un titolo su una terra di qualche amico e diventerai tu pure stitolato come tanti altri. Per questo bada, figlio mio, ogni cosa capo ha, chi non comincia non continua ».
    « Lascia fare a me », rispose Nardiello, « che ora so fare miei conticini, ho imparato regole per tutte le occasioni! »
    «Così voglio », replicò il padre e, sborsati i danari, quello s'avviò alla fiera.
    Ma non era arrivato alle acque del Sarno che, in un bel boschetto di olmi, ai piedi di una pietra che per curare una piaga perpetua d'acqua fresca si era circondata di fronde di edera, vide una fata che giocherellava con uno scarafaggio, che suonava una chitarriglia in un modo tale che se l'avesse sentito uno spagnolo avrebbe detto che era una cosa superbiosa e grandiosa.
    Visto questo Nardiello si fermò ad ascoltare come incantato, dicendo che avrebbe pagato una ciliegina per avere un animale così abile: la fata gli disse che se lo avesse pagato cento ducati glielo avrebbe dato.
    « Mai una migliore occasione di questa », rispose Nardiello,
    « perché li ho pronti e subito! ».
    E, dicendo così, le gettò in grembo i cento ducati e preso lo scarafaggio in una scatolina corse dal padre con una gioia che gli saliva dalle ossicine dei piedi, dicendogli:
    « Ora proprio vedrai, signore mio, se sono un uomo d'ingegno e so fare i miei affari, perché, senza stancarmi fino alla fiera, ho trovato a mezza strada la mia ventura e per cento ducati ho avuto questo gioiello! ».
    Il padre, sentendo queste parole e vedendo la scatolina, pensò che il figlio avesse comprato qualche monile di diamanti, ma, aperta la cassettina e visto lo scarafaggio, la vergogna dell'imbroglio e il dolore dell'interesse furono due mantici che
    lo fecero gonfiare come un rospo e, mentre Nardiello avrebbe voluto raccontargli delle qualità dello scarafaggio, non gli fu proprio possibile aprire bocca, gli veniva detto senza interruzione: « Stai zitto, ottura, chiudi questa bocca, tappa, non pigolare, razza di mulo, ingegno da cavallo, testa d'asino! e in questo stesso istante restituisci lo scarafaggio a chi te lo ha venduto e con questi altri cento ducati che ti do comprane tutti giovenchi, tornando subito e guarda che non ti accechi il demonio, che ti faccio mangiare le mani con i denti! ».
    Nardiello, presi i danari, si avviò verso la Torre di Sarno e, arrivato nello stesso luogo, trovò un'altra fata che giocava con un topo che faceva le più belle variazioni di ballo mai viste. Nardiello, rimasto per un pezzo a guardare i dainetti,
    le continenze, le capriole, le puntate e le corsette di questo animale, rimase sbalordito e chiese alla fata se glielo volesse vendere, le avrebbe dato cento ducati.
    La fata accettò il patto e, presi gli spiccioli, gli diede il topo nella scatola.
    E Nardiello, tornato a casa sua, mostrò allo sventurato Miccone il bell'acquisto fatto e lui fece cose maledette, sbattendosi come un polipo bastonato, sbruffando come un cavallo ombroso e, se non fosse stato per un compare che capitò in questo putiferio, gli avrebbe preso per bene la misura della gobba.
    Alla fine il padre, che era infuriato alla grande, presi altri cento ducati gli disse: « Bada a non farne più una delle tue, perché la terza non ti va bene .Vai allora a Salerno e compra i giovenchi, perché, sull'anima dei miei morti, se sbagli povera mamma tua che ti ha figliato! ».
    Nardiello con la testa bassa filò alla volta di Salerno e, arrivato nello stesso luogo, trovò un'altra fata, che si divertiva con un grillo, che cantava così dolcemente da fare addormentare la gente. Nardiello, nel sentire questo nuovo tipo di usignolo, gli venne subito voglia di combinare quest'affare e messosi d'accordo per cento ducati se lo mise dentro una gabbietta fatta con una zucca lunga e bastoncelli e se ne tornò dal padre.
    E questo, vedendo il terzo cattivo servizio, perse la pazienza e afferratoun bastone lo consumò alla meglio, ne fece più di Rodomonte.
    Nardiello, appena riuscì a scappargli dalle zampe prese tutte e tre quelle bestie, se la squagliò da quel paese e s'avviò verso la Lombardia, dove c'era un gran signore, chiamato Cenzone, che aveva una figlia unica, chiamata Milla, a cui per un certo malanno era venuta tanta malinconia che per sette anni continui non l'avevano mai vista ridere; tanto che il padre, disperato, fece pubblicare un bando: a chi l'avesse fatta ridere l'avrebbe data in moglie.
    A Nardiello, che sentì questo bando, venne il capriccio di tentare la sua sorte e, andato al cospetto di Cenzone, si offrì di far ridere Milla.
    Quel signore gli rispose: « Stai attento, amico, perché se la faccenda non ti riesce ci perderai la forma del cappuccio! ».
    « Ci perda la forma e anche la scarpa », replicò Nardiello, « perché io ci voglio provare e capiti quel che vuole capitare! ».
    Il re fece venire la figlia e sedettero sotto un baldacchino, Nardiello tirò fuori dalla scatola le tre bestie, che suonarono, ballarono e cantarono con tanta grazia e con tante moine che la regina scoppiò a ridere, ma pianse il principe dentro il suo cuore, perché, come stabiliva il bando, era costretto a dare un gioiello tra le femmine a una feccia tra gli uomini.
    Ma, non potendo ritirare la promessa, disse a Nardiello:
    « Io ti do mia figlia e lo Stato per dote, ma con il patto che se tu non consumi in tre giorni il matrimonio io ti faccio mangiare dai leoni ».
    « Non ho paura », disse Nardiello, « perché in questo tempo sono capace di consumare il matrimonio, tua figlia e tutta la casa! ». « Piano, ora andiamo, disse Carcariello, i meloni si riconoscono con un assaggio! ».
    Fatta quindi la festa e venuta la sera - quando il Sole come un ladro è portato con la cappa in testa nel carcere dell'Occidente - gli sposi andarono a coricarsi: ma perché maliziosamente il re aveva fatto dare il sonnifero a Nardiello, lui non face altro che russare tutta la notte.
    E, continuata la cosa nel secondo e nel terzo giorno, il re lo fece gettare nella fossa dei leoni, dove Nardiello, vedendosi alle strette, aprì la scatola delle bestie, dicendo:
    « Visto che il mio destino mi ha trascinato con quest'amaro traino a questo sventurato passo, non avendo altro da lasciarvi, belle bestie mie, vi libero, perché possiate andarvene dove vi pare e piace ». Le bestie, appena furono libere, cominciarono a fare tanti scherzetti e giochino che i leoni rimasero fermi come statue; e nel frattempo il topo parlò a Nardiello, che stava già con l'anima tra i denti, dicendogli: « Stà allegro, padrone, perché anche se ci hai liberati noi vogliamo esserti più schiavi che mai, visto che ci hai nutrito con tanto amore e curati con tanto affetto e alla fine ci hai dato un segno di tanta dedizione affrancandoci.
    Ma non dubitare: chi bene fa bene aspetta; fai bene e dimenticatene. Ma sappi che noi siamo fatati e, per farti vedere se possiamo e siamo capaci, vienici dietro,
    così ti levi da questo pericolo ».
    E mentre Nardiello li seguiva il topo fece subito un buco adatto a farci passare un uomo, attraverso questo e
    con una risalita a gradini lo portarono di sopra, in salvo;
    dove, mettendolo in un pagliaio, gli dissero di ordinargli tutto quello che desiderava, perché non avrebbero tralasciato di fare
    cosa che gli desse piacere.
    «Il mio piacere sarebbe», rispose Nardiello, «che , se il re
    ha dato un altro marito a Milla, mi faceste il piacere di non
    far consumare questo matrimonio, perché sarebbe come consumare questa vita sventurata».
    «Questo e niente è la stessa cosa», risposero le bestie,
    «stai di buon umore e aspettaci in questa capanna, ora togliamo il marcio!».
    E, avviatisi alla corte, trovarono che il re aveva maritato la figlia con un gran signore tedesco e la sera stessa si stappava la botte.
    Per questo le bestie, entrate destramente nella camera degli sposi, aspettarono la sera quando, finito il banchetto - nel momento in cui la Luna esce a nutrire di rugiada le Gallinelle - se ne andarono a coricarsi e, poiché lo sposo aveva mangiato troppo e bevuto di più , appena si rintanò tra le lenzuola si addormentò come fosse scannato.
    Lo scarafaggio, che sentì lo sposo russare, se ne salì piano piano per il piede del letto e infilatosi sotto la coperta si ficcò lesto nel culo dello sposo, facendogli da supposta così che
    gli spilò il corpo in misura tale che gli fu possibile dire con Tetrarca: d'amor trasse indi un liquido sottile.
    La sposa, che sentì la spernacchiatura della dissenteria, l'aura, l'odore, il refrigerio e l'ombra, svegliò il marito.
    E lui, visto con quale profumo aveva incensato il suo idolo, stava per morire dalla vergogna e per crepare di collera e, alzato dal letto e fatto un bucato a tutta la persona,
    mandò a chiamare i medici, che attribuirono la causa
    di questa disgrazia al disordine del banchetto che c'era stato.
    E quando arrivò la sera dopo, tornato a consigliarsi con i suoi servi, furono tutti del parere che era meglio si imbracasse di buoni panni, per por rimedio a qualche nuovo inconveniente; e fatto questo andò a coricarsi.
    Ma, addormentato di nuovo e tornato lo scarafaggio a fargli il secondo scherzo, trovò il passaggio sbarrato; per questo tornò scontento dai compagni, raccontandogli come lo sposo avesse preparato ripari di fasce, argini di pannolini e trincee
    di pezze.
    Il topo, sentendo questo, disse: « Vieni con me e vedrai se sono in buon guastatore per prepararti la strada! ».
    E, arrivato in vista del luogo, cominciò a rosicchiare i panni e a fargli un buco in corrispondenza dell'altro, e, entrando da là, lo scarafaggio gli fece un'altra cura medicinale in modo che fece un mare di topazio liquido e i profumi arabi ammorbarono il palazzo. Per questo la sposa si svegliò nauseata e,
    visto alla luce della lampada il diluvio giallo che aveva fatto diventare le lenzuola d'Olanda tabiò di Venezia giallo a onde, chiudendosi il naso fuggì nella camera delle damigelle e lo sventurato sposo, chiamando i dignitari, si lamentò a lungo della sua disgrazia, perché con fondamenta così scivolose aveva cominciato a costruire le grandezze della sua casata.
    I suoi parenti lo confortarono, consigliandolo di stare
    attento la terza notte, raccontandogli il racconto del malato spetezzone e del medico mordace: quello s'era lasciato scappare un peto e il medico, parlandogli da sapientone, gli aveva detto:«E' salute!», ma, seguendone un altro, quello aveva aggiunto:«Sono le correnti d'aria!», ma, continuando con un terzo peto, quello aveva aperto tanto di bocca e aveva detto:
    «E' asinaggine!».
    Perciò se il primo lavoro a mosaico fatto nel letto nuziale era stato attribuito al mangiare disordinato, il secondo al cattivo stato dello stomaco per cui si era guastato il corpo, il terzo sarebbe stato imputato a natura cacazzara e sarebbe stato cacciato con puzzo e con vergogna.
    «Non dubitate», disse lo sposo, «perché stanotte, anche se dovessi crepare, voglio stare sempre sveglio, senza lasciarmi vincere dal sonno e inoltre penseremo a qualche rimedio per otturare il condotto maestro, perché non mi si dica: tre volte cadde e alla terza giacque! Con questo accordo allora, quando arrivò la notte seguente e dopo aver cambiato
    camera e letto, lo sposo chiamò gli amici chiedendogli consiglio su come otturare il corpo, perché non gli facesse
    il terzo scherzo, in quanto al restare sveglio non l'avrebbero addormentato tutti i papaveri che sono al mondo.
    Tra questi servi c'era un giovane che si dilettava dell'arte
    di bombardiere; e, poiché ognuno parla del suo mestiere, consigliò allo sposo di farsi un tappo di legno, come si fa per i mortaretti. Il che fu subito preparato e, dopo averlo messo dove doveva stare, andò a coricarsi, senza toccare la sposa, per paura di fare sforzi e rovinare l'invenzione e senza chiudere gli occhi, per trovarsi pronto ad ogni movimento
    della pancia.
    Lo scarafaggio, che vedeva lo sposo che non s'addormentava, disse agli amici:
    «Ohimè, questa è la volta che ce la fanno vedere e la nostra arte non ci serve a nulla, perché lo sposo non dorme e non mi dà spazio per continuare l'impresa!»
    «Aspetta», disse il grillo, «ora ti servo!», e, cominciando dolcemente a cantare, fece addormentare lo sposo.
    Visto questo lo scarafaggio corse a fargli supposta di se stesso, ma, trovata chiusa la porta e sbarrata la strada,
    tornò dai compagni disperato e confuso, raccontando quello che gli era capitato.
    Il topo, che non aveva altro fine se non quello di servire e accontentare Nardiello, sull'istante se ne andò nella dispensa e, annusando vasetto dopo vasetto, trovò un vaso di mostarda di senape, dove si strofinò la coda e corse al letto dello sposo e unse tutte le frogie del naso del povero tedesco, che cominciò a starnutire così forte che il tappo saltò fuori con tanta violenza che, trovandosi di spalle alla sposa, glielo sparò sul petto così violentemente che stava quasi per ammazzarla. Agli strilli della sposa accorse il re e, quando chiese cosa avesse, sentì che le era stato sparato
    un petardo nel petto.
    Il re si meravigliò di questa assurdità, che dopo aver preso
    un petardo in petto potesse parlare, e, sollevate le coperte e le lenzuola, trovò la mina di crusca e il tappo del mortaretto,
    che aveva fatto un bel lividone alla sposa, anche se non so se le avesse fatto più danno la puzza della polvere o il colpo della palla. Il re, visto questa schifezza e sentito che era la terza soluzione del contratto che aveva sottoscritto, lo cacciò dal suo paese e, considerando che tutto questo male gli era capitato per la crudeltà usata nei confronti del povero Nardiello, si dava pugni in petto e mentre, pentito di quanto aveva fatto, faceva i suoi lamenti, gli si fece davanti lo scarafaggio dicendo: «Non disperarti perché Nardiello è vivo
    e per le sue buone qualità merita d'essere il genero di vostra magnificenza e se desiderate che venga, lo manderemo subito a chiamare». «Oh che sii il benvenuto con questa notizia
    da mancia, bella bestia mia!tu mi hai dato la vita, tu mi hai tolto da un mare di affanni, perché mi sentivo un affanno nel cuore per il torto fatto a quel povero giovane! perciò fatelo venire, perché lo voglio abbracciare come un figlio e dargli
    mia figlia in moglie».
    Sentito questo, il grillo saltando saltando se ne andò nella capanna dov'era Nardiello e, dopo avergli raccontato tutto quello che era capitato, lo fece venire al palazzo reale,
    dove, incontrato e abbracciato dal re, gli fu consegnata Milla per la mano e, ricevuta la fatagione dalle bestie, diventò
    un bel giovane, e, mandato a chiamare il padre dal Vomero, vissero insieme felici e contenti, dopo mille stenti e mille affanni che ne capitano più in un ora che in cent'anni".

    ( da " LO CUNTO de li CUNTI " )
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    EffeCi61
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    Senior
    00 12/09/2005 00:48
    [SM=x515563]

    ma...lol!!!

    Assolutamente deliziosa...
    [SM=x515515]
  • danzandosottolaluna
    00 01/10/2005 07:08
    [SM=x515539] [SM=g27811]
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    Aronne1
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    Wizard & Elf
    00 03/10/2005 09:06
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