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Era volato un dì tutto giulivo
con un pezzo di cacio parmigiano
un corvo in cima ad un antico olivo.
La volpe il vide, e s’accostò pian piano,
per farlo rimanere un bel somaro,
se il cacio gli potea cavar di mano.
Ma perché tra di lor eran del paro
scaltri e furfanti, e come dir si suole,
era tra galeotto, e marinaro;
ella, che scorso avea tutte le scuole,
ed era masvigliacca in quintessenza,
cominciò verso lui con tai parole:
gran maestra è di noi l’esperienza;
ella ci guida in questa bassa riva,
madre di veritade e di prudenza.
Quando da un certo io predicar sentiva,
che la fama ha due facce, ed è fallace,
a maligna bugia l’attribuiva.
Ma ora l’occhio è testimon verace
di quanto udì l’orecchio, e ben conosco,
che questa fama è un animal mendace.
Già, perché si dicea, che nero, e fosco
eri più della pece, e del carbone,
mi ti fingea spazzacamin da bosco.
Ma quanto è falsa l’immaginazione;
tu sei più bianco che non è la neve,
e, pazza, io ti stimava un calabrone.
Troppo gran danno la virtù riceve
da questa fama infame, e scellerata,
sempre bugiarda, appassionata, e leve.
Perde teco, per Dio, la saponata:
tu sembri giusto tra coteste fronde,
tra le foglie di fico una giuncata;
e se al candor la voce corrisponde,
ne incaco quanti cigni alzano il grido
là del Cefiso ) alle famose sponde.
Se tu cantar sapessi, io me la rido
di quanti uccelli ha il mondo: eh! che tu sai
che in un bel corpo una bell’alma ha il nido.
Così disse la furba, e disse assai,
che il corvo d’ambizion gonfiato, e pregno
credè saper quel che non seppe mai.
E per mostrar del canto il bell’ingegno
si compose, si scosse, e il fiato prese,
e a cantar cominciò sopra quel legno.
Ma mentre egli stordia tutto il paese
col solito crà, crà, dal rostro aperto
cascò il formaggio, e la comar lo prese.
Onde per farla da cantor esperto
si trovò digiun, come quel cane,
che lasciò il certo per segui l’incerto.


[da Salvator Rosa,La poesia(satira)]

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