Non ti muovere
Un giorno di pioggia, un incidente. Un motorino in terra e, lì nei pressi, il corpo esanime di una ragazza di quindici anni. La ragazza viene condotta immediatamente al pronto soccorso in condizioni gravissime.
L’infermiera Ada (Angela Finocchiaro) scopre che si tratta della figlia del primario Timoteo (Sergio Castellitto). Sconvolto dalla notizia, Timoteo si rifiuta di assistere all’operazione della figlia. Avverte per telefono la moglie Elsa (Claudia Gerini) che si trova a Londra per lavoro e rimane poi lì fuori a ricordare, come parlasse con sua figlia. Le vuole svelare una storia accaduta un anno prima che lei nascesse, una passione extraconiugale con una donna di nome Italia (Penélope Cruz).
Castellitto, al suo secondo film, resta sostanzialmente fedele all’omonimo romanzo scritto dalla moglie e co-sceneggiatrice Margaret Mazzantini, (Premio Strega 2002), non solo nella storia ma anche nello stile. Un libro che offre moltissimi stimoli visivi (e non solo visivi): lo trasforma in immagini dense, carnali, sudate e contemporaneamente lo riduce ai suoi elementi essenziali, ovvero eros e thanatos, amore e morte. La scrittura incalzante, plurisensoriale della Mazzantini si trasforma, a contatto con Castellitto regista e attore, in un cinema vorace, visionario e coinvolgente. La discesa agli inferi di un padre, di un marito, di un uomo costretto da una situazione disperata a guardarsi allo specchio – per tramite della figlia distesa sul lettino operatorio – e a fare i conti con una vita sbagliata, una vita che a un certo punto, dopo il conseguimento degli obiettivi giovanili, si è richiusa su se stessa negandosi alle persone che aveva più vicino.
Timoteo è divenuto un’assenza, una latitanza. L’incontro – o meglio lo scontro - con Italia, lo ha rivelato “straniero”, estraneo a se stesso.
La prima inquadratura, il luogo dell’incidente ripreso dall’alto, sotto la pioggia, in un’immobilità assoluta che è tutt’uno con l’asfalto inerte e l’atroce solennità della tragedia, rende giustizia all’incipit del libro, che prende immediatamente per i capelli il lettore trascinandolo dritto al cuore della storia. Ben calibrati i flashback, mai troppo “puntualizzati” e spiegati, ma anzi rispettati nel loro baluginare nella memoria come eventi solo apparentemente secondari (la rappresentazione della miseria dell’infanzia, ad esempio, spiega il disprezzo e, al contempo, l’attrazione di Timoteo per Italia e il suo mondo degradato).
Precisa senza essere pittoresca la rappresentazione della periferia romana nella calura estiva, dove l’afa, l’alcool e strani desideri senza nome si fondono in Timoteo in una sensazione nuova e sconosciuta, che lo prende alla sprovvista.
Perfettamente centrata anche la temperatura emotiva delle molte scene di sesso, che non risultano mai compiaciute né inessenziali. L’unico, fatale momento in cui il film di Castellitto precipita col botto è il finale. Un finale dove Castellitto-attore si disfa troppo a cuor leggero del suo tormento e dove Castellitto-regista commette l’errore di rompere bruscamente l’armonia dei toni adoperando la nuova canzone di Vasco Rossi che, al di là delle sue qualità intrinseche, non c’entra assolutamente nulla con il climax della storia e le cui parole non possono che banalizzarne tremendamente l’esito. E questo dispiace in un film che, per il resto, è riuscito ad evitare tutti i facili trabocchetti dell’eccesso e del cattivo gusto.
Sugli attori, tutti più o meno all’altezza (più la Finocchiaro, meno la Gerini), spiccano un sempre più stralunato Castellitto e una Penélope Cruz perfetta, incredibilmente in parte (e non soltanto per l’ottimo lavoro dei truccatori). La sua Italia è uno dei personaggi più indimenticabili del cinema italiano dell’ultimo decennio.
Margaret Mazzantini aveva già scritto e interpretato con il marito il film precedente, Libero burro.
[Recensione di Vittorio Renzi (10.03.2004)]